Nel panorama videoludico odierno, il concetto di possesso sta cedendo il passo a quello di fruizione – il più a lungo possibile. Se un tempo acquistare un videogioco significava portare a casa un pacchetto completo, un’opera chiusa e definita come un libro o un film, oggi la tendenza che i publisher seguono con insistenza è quella dei live service (o Games as a Service, GaaS), ossia videogiochi pensati come piattaforme che si espandono e si allargano nel tempo accogliendo novità, eventi e molto altro ancora.
In qualità di osservatori del settore, non possiamo più limitarci a considerare il videogioco come un prodotto: per i grandi colossi dell’editoria, esso è diventatoun servizio che deve durare anni, se non decenni. Non sono rare dichiarazioni come quelle rilasciate da Ubisoft dopo il successo di Assassin’s Creed: Valhalla, quello che può essere considerato il primo live service nella storia del franchise visto il suo lunghissimo e duraturo supporto: l’obiettivo, oggi, è mantenere un giocatore sullo stesso gioco per molto tempo, e non è più quello di portarlo ad acquistare altri titoli.
Ma cos’è, tecnicamente, un live service? E perché dovremmo temerlo?
Cos’è un videogioco live service?

Un videogioco live service è sostanzialmente un organismo digitale in costante mutamento. A differenza dei titoli tradizionali, questi giochi vengono lanciati con l’obiettivo di essere aggiornati settimanalmente o mensilmente. Il modello di business non si esaurisce con l’acquisto iniziale – che spesso è persino gratuito – ma si sposta sulla fidelizzazione a lungo termine. Attraverso l’introduzione di nuove mappe nel caso degli shooter, personaggi e archi narrativi per gli RPG, o anche eventi stagionali in molti casi (EA Sports FC ed eFootball, tanto per dirne un paio), gli sviluppatori cercano di creare un’abitudine nel giocatore, trasformando l’intrattenimento in un appuntamento quotidiano.
Badate bene, live service non significa necessariamente multiplayer online. Fortnite e Warzone sono live service, ma non per il fatto di essere titoli incentrati sulla competizione tra giocatori. Esistono infatti numerosi esempi di giochi live service che possono essere fruiti tranquillamente in solitaria: uno dei casi più celebri è Genshin Impact di Hoyoverse, un monumentale gioco che viene costantemente aggiornato e che negli anni è cresciuto a dismisura.
Possiamo citare anche Hitman: World of Assassination di IO Interactive, Gran Turismo 7 di Polyphony Digital e il grande No Man’s Sky di Hello Games: si tratta in tutti questi casi di videogiochi che hanno il single player come vocazione principale, garantendo però un supporto lungo e duraturo. Il prossimo picchiaduro Marvel Tokon: Fighting Souls, ad esempio, mira ad almeno un decennio di contenuti spalmati nel tempo e è considerato dai suoi stessi autori un live service, anche se può essere fruito in single player senza problemi.

Il cuore pulsante di questo sistema è la monetizzazione ricorrente. Strumenti come il “Battle Pass” o le microtransazioni estetiche permettono di finanziare lo sviluppo continuo.
Il successo di questa formula è incarnato da giganti come i già citati Fortnite o Genshin Impact. In questi casi, il gioco smette di essere solo un passatempo e diventa un social network, un luogo di aggregazione dove i confini tra gioco e realtà si sfumano. Anche titoli come Destiny 2 o Helldivers 2 hanno dimostrato come una comunicazione trasparente con la community e un flusso costante di sfide fresche possano creare ecosistemi estremamente redditizi e amati – anche se il gioco di Bungie è tutto tranne che in acque tranquille, in questi ultimi anni.
Corsa all’oro… o alla speranza?
Aziende come Epic Games sono riuscite a fare dei live service delle inarrestabili galline dalle uova d’oro, portando a flussi costanti di monetizzazione grazie al coinvolgimento di milioni e milioni di utenti ogni mese. Tuttavia, questa corsa all’oro digitale nasconde insidie fatali, e in pochi riescono a sopravvivere al mercato.
La saturazione, ad esempio, è un rischio che qualsiasi titolo di questo stampo deve (o dovrebbe) tenere in considerazione: il tempo di un giocatore è una risorsa finita e non tutti possono permettersi di “vivere” in più mondi virtuali contemporaneamente. Banalmente, è il problema che anche le piattaforme streaming stanno incontrando sempre più spesso, con una più o meno diffusa stagnazione nel numero di abbonati.

Quando un editore insegue il trend, la moda del momento, senza un’identità precisa o un valore aggiunto, il disastro è dietro l’angolo. Il caso più eclatante e recente è senza dubbio Concord. Nonostante un investimento stimato in centinaia di milioni di dollari e otto anni di sviluppo, il titolo di Sony è stato ritirato dal mercato dopo appena due settimane dal lancio. Un fallimento epocale che ha evidenziato quanto il pubblico sia ormai stanco di prodotti derivativi che cercano solo di replicare formule altrui senza anima.
Concord è il simbolo moderno di questa follia live service senz’anima, ma i casi simili non mancano. Titoli come Suicide Squad: Kill the Justice League, o il travagliato Anthem che a breve si spegnerà per sempre, hanno dimostrato che nemmeno i marchi e gli studi più prestigiosi sono immuni al rifiuto dei giocatori se la struttura live service appare forzata o priva di contenuti sostanziali. Il rischio è trasformare il videogioco in un lavoro, una serie di attività ripetitive pensate solo per alimentare una barra di progressione infinita.
Call of Duty, di Activision, si è rapidamente trasformato in questo: da semplice gioco premium annuale a piattaforma da arricchire costantemente di contenuti grazie all’esplosione di Warzone, il battle royale che è a disposizione di tutti, gratis e ovunque – o quasi. Eppure, anche il caso di COD è emblematico per parlare del rischio di incappare in un live service privo di ispirazione e mordente. Black Ops 7, giunto solo poche settimane fa, è diventato il simbolo di un malcontento generale nella community dello sparatutto, schiacciata da una ripetitività non solo nella struttura ma nella concezione stessa: se il live service deve essere mantenuto per anni e anni, gli stravolgimenti sono impossibili.

E qui, per finire, scaturisce un altro imponente problema che deve spaventare l’industria, e che troppo spesso viene lasciato in secondo piano sin dallo sviluppo: la costanza è la chiave del successo di un live service. Naughty Dog, quando cancellò The Last of Us Online dopo anni e anni di sviluppo, lo fece per questioni logiche: se il gioco esce, una gran parte del team deve necessariamente supportarlo, e questo avrebbe inevitabilmente rallentato tutti gli altri progetti dello studio.
Un live service, quando esce sul mercato, è solo a metà della sua lavorazione: il piatto forte arriva dopo, e non tutti possono supportarlo – o sopportarlo. Epic Games, ad esempio, oggi è Fortnite, e nient’altro. Call of Duty è divenuto Warzone-centrico. Ma un conto è trovare un’idea; un altro è inseguire a tutti i costi il successo facendo tentativi su tentativi, come PlayStation ma anche Ubisoft hanno fatto in questi ultimi anni.
Il modello live service non è da demonizzare, e anzi rappresenta oggi la più grande scommessa dell’industria: un titolo di questo tipo, quando funziona, garantisce un flusso preziosissimo di denaro costante. Se gestito con cura, può regalare esperienze memorabili e mondi in continua evoluzione; se guidato solo dalla logica del profitto e della saturazione, rischia di diventare un cimitero di giocatori rimasti a mani vuote, server spenti e promesse infrante. Il futuro del gaming non dipenderà da quanti contenuti verranno aggiunti, ma dalla capacità dei creatori di rispettare il tempo e l’intelligenza di chi, dall’altra parte dello schermo, cerca ancora un’emozione e non solo un servizio. E i live service, chiaramente, non sono sempre la risposta.
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