Home Videogiochi Rubriche Retrogaming | Burnout 3 Takedown, quando potenza e adrenalina graffiavano l’asfalto

Retrogaming | Burnout 3 Takedown, quando potenza e adrenalina graffiavano l’asfalto

Le recenti notizie intorno a Electronic Arts, con l’azienda che sembra abbia deciso di abbandonare i suoi storici franchise di corse automobilistiche per dedicarsi ad altro, hanno permesso a Burnout di fare nuovamente capolino nelle cronache del web. E come dimenticarsi di Burnout. Quando si pensa al passato e agli adrenalinici giochi arcade, i nomi sono due. Uno è Need for Speed. L’altro, appunto, è quello della celebre serie di Criterion Games, che rappresenta anche uno dei più grandi misteri della storia videoludica.

Mistero, sì, perché molto raramente è successo che una serie che aveva raggiunto il suo apice sia sparita completamente dai radar. Dopo lo spettacolare Burnout: Paradise, EA prese infatti Criterion e gli impose di fare la stessa cosa, ma con Need for Speed. E nonostante alcuni tentativi molto buoni, non ci è riuscita. Nonostante vari giochi molto apprezzati come i reboot di Most Wanted e Hot Pursuit, nessun NFS è riuscito a replicare quel miracolo che fu Burnout: Paradise, le cui radici comunque affondavano nei già ottimi titoli precedenti del franchise. Quello più significativo, tirando le somme, fu lo spettacolare Burnout 3: Takedown.

Pubblicato il 7 settembre 2004, vale a dire esattamente 21 anni fa, questo titolo non era soltanto il terzo episodio di una serie di corse arcade già rispettata, ma il capitolo che ne ridefinì completamente l’identità, trasformandola da ottimo racing game a vera e propria leggenda del genere.

Burnout 3 non fu un semplice gioco di macchine: fu il manifesto di un astro nascente del genere racing, un’opera, a tutti gli effetti, che lanciava in faccia al giocatore un’esperienza spettacolare e soprattutto liberatoria. Non più soltanto curve e tempi da battere, ma incidenti, scintille, esplosioni di metallo e adrenalina. Non era la prima volta che persino le collisioni diventavano il focus di un videogioco di corse, ma con Burnout tutto questo veniva amplificato con eleganza e ferocia, abbattendo la classica “correttezza” nelle corse virtuali con grande facilità.

Gli albori della serie

Per capire l’impatto di Burnout 3, bisogna tornare all’inizio, perché non tutti giustamente ricordano gli albori della serie.

La saga nasce nel 2001 con, pensate un po’, il videogioco Burnout per PS2, GameCube e Xbox. Progetto relativamente piccolo sviluppato da Criterion, studio inglese che fino ad allora si era distinto più per il motore grafico RenderWare che per i giochi, aveva comunque qualcosa di curioso, e proponeva già una formula diversa dagli altri racing: l’idea era quella di rendere la guida ad alta velocità il più spettacolare e rischiosa possibile, spingendo il giocatore a correre nel traffico urbano, sfidando costantemente l’incidente.

Il successo, proprio negli anni in cui anche altri racing arcade stavano esplodendo come Need for Speed, portò inevitabilmente nel 2002 a un seguito, Burnout 2: Point of Impact, che raffinava il concetto aggiungendo nuove modalità e soprattutto la leggendaria “Crash Mode”: una sfida che chiedeva ai giocatori di lanciarsi contro il traffico con lo scopo di provocare il maggior numero di incidenti possibili. Un’idea che da sola bastava a differenziare Burnout da qualsiasi concorrente, fondendo la passione per le corse arcade con il fascino catastrofico degli incidenti cinematografici.

Ma fu con Burnout 3 che Criterion decise di alzare l’asticella, trasformando una serie promettente in un’opera memorabile. Un titolo che per molti ha segnato la giovinezza, e che in tanti ricordano con grande affetto ancora oggi.

Dietro la nascita di Burnout 3 ci fu una condizione particolare: il passaggio del franchise sotto l’ala di Electronic Arts. Sì, la stessa EA che stava spopolando proprio con il citato Need for Speed, ma che aveva fiutato le grosse potenzialità di Criterion. Dopo i primi due episodi pubblicati da Acclaim, la serie trovò in EA il trampolino di lancio definitivo. Il colosso americano, allora nel pieno della sua espansione, decise di dare a Criterion mezzi, risorse e visibilità per creare qualcosa di mai visto prima, perché le ambizioni erano altissime. In più, il rischio di sovrapporsi a Need for Speed era scongiurato, perché Criterion aveva in mente ben altro.

Gli sviluppatori colsero l’occasione con ferocia creativa. Burnout 3 fu concepito come il racing game che avrebbe spinto tutto oltre i limiti: più auto, più circuiti, più modalità, più distruzione. Persino la colonna sonora fu pensata come elemento identitario, con un mix di punk, alternative rock e suoni aggressivi che dettavano il ritmo della corsa. Ancora oggi, riascoltando alla radio alcuni iconici brani inseriti nella colonna sonora come Lazy Generation dei The F-Ups, tornano alla mente quei magici momenti nei quali eravamo impegnati a graffiare l’asfalto coi nostri bolidi. Ogni scelta era orientata a costruire un’esperienza totale, fatta per tenere il giocatore con gli occhi sbarrati e le mani incollate al pad. Takedown, questo il sottotitolo scelto per il terzo capitolo, riuscì pienamente nel suo intento.

Takedown: la filosofia della vittoria

La formula di Burnout 3 era semplice, e allo stesso tempo cambiava le regole del normale gioco di corse. Arrivare primi, concetto base di tutti i videogiochi che mettono l’utente su un bolide, non era l’obiettivo finale. In Burnout 3, vincere significava dominare la corsa eliminando gli avversari, letteralmente. Con un urto ben piazzato, una manovra aggressiva e un rischio calcolato, si poteva spedire l’auto rivale contro un muro, sotto un camion, o in mille pezzi contro il guardrail, assistendo a spettacolari slow motion in stile Matrix che sapevano di vittoria. Ogni Takedown era un’esplosione di spettacolo, condita da un sistema di punteggi che premiava la brutalità con nuova energia per l’immancabile boost.

Questa meccanica trasformava il modo stesso di concepire una corsa arcade. Non era più soltanto la ricerca della traiettoria perfetta: era una continua altalena di velocità e aggressività, un equilibrio tra controllo e distruzione. Chi sapeva usare i Takedown non solo eliminava concorrenti, ma otteneva un vantaggio competitivo diretto. L’aggressività diventava strategia, e Criterion aveva trovato la formula magica per cambiare il solito gioco di corse.

I Takedown erano una parte fondamentale dell’esperienza di Burnout 3, ma vale la pena ricordare che il titolo è anche ricordato per la sua mole di contenuti impressionanti per l’epoca, e realizzati con dovizia. C’erano più di 67 veicoli sbloccabili, che spaziavano dalle compatte leggere fino alle supercar più potenti e quasi impossibili da tenere in strada senza allenamento, con categorie che proponevano stili di guida differenti. Le gare erano tantissime: oltre 40 circuiti sparsi in tutto il mondo, dalle metropoli americane ai paesaggi europei, passando per località esotiche e autostrade infinite.

La campagna single player, il World Tour, era una vera e propria maratona di eventi: gare, modalità eliminazione, prove a tempo, crash mode e sfide uniche. Ogni evento premiava il giocatore con nuove vetture e nuove opportunità di mettersi alla prova. Criterion ripropose poi anche fortunatamente la modalità Crash, potenziata e arricchita: lo scopo qui era di schiantarsi al centro di incroci pieni di automobili e di causare piu’ danni possibili per poter accedere a nuove ricompense e ad opzioni supplementari. Un mix geniale di fisica e spettacolo che diventò un fenomeno di culto, tanto che la sua assenza in altri capitoli portò i giocatori a lamentarsi con Criterion. Nel 2011 venne addirittura realizzato uno spin-off apposito, Burnout Crash!, che però non ottenne grandi riscontri.

Non mancava neanche il multiplayer, sia locale che online, con modalità competitive e cooperative che garantivano ore infinite di adrenalina condivisa. Per chi era in cerca di forza e passione dei motori, qui poteva avere tutto quello che serviva nella metà degli anni 2000. Le auto sfrecciavano a velocità folli, ma la fisica era calibrata alla perfezione per restituire la tensione senza perdere controllo. Ogni sorpasso millimetrico tra due camion, ogni curva affrontata con il boost al massimo, ogni Takedown messo a segno, era un’esplosione di dopamina.

Tutto questo era merito anche di un comparto grafico davvero impressionante per l’epoca, capace di raggiungere i 60 frame al secondo sulle console di quella generazione, e con modelli delle auto dettagliati, esplosioni di scintille e pezzi di carrozzeria che volavano in aria. La cosa più incredibile era il ritmo col quale Burnout schiaffava in faccia al giocatore le corse: un flusso ininterrotto di velocità, rischio e spettacolo.

Un grande successo, un futuro stranissimo

All’uscita, Burnout 3: Takedown fu accolto con entusiasmo universale. La critica lo definì un capolavoro, il racing arcade definitivo, un gioco che ridefiniva gli standard del genere. Su Metacritic, i voti oscillarono tra il 93 e il 94, elogiando meritatamente un titolo monumentale. Le vendite furono ottime, soprattutto grazie alla spinta di Electronic Arts, che portò il titolo nelle mani di milioni di giocatori.

Con Takewodn, Burnout non era più soltanto un racing game: era diventato una pietra miliare. Un’opera che chiunque amasse i videogiochi di corse, o i giochi in generale, doveva provare almeno una volta. Eppure, il suo straordinario successo portò inaspettatamente a un futuro ricco di dubbi e domande.

Nel 2005 arrivò Burnout Revenge, che tentò di ampliare ulteriormente la formula introducendo la nuova modalità Attacco al Traffico, una sorta di corsa contro il tempo dove però l’obiettivo primario era provocare quanti più incidenti possibili, sfruttando così una delle meccaniche più apprezzate di Takedown. Un capitolo apprezzato ma meno iconico. Sempre nel 2005 arrivò lo spin-off per console portatili Burnout Legends, mentre nel 2007 fu la volta di Burnout Dominator, che tuttavia non ottenne un buonissimo riscontro dalla critica.

Dominator venne sviluppato da EA UK, poiché Criterion era invece al lavoro sul ben più ambizioso Burnout Paradise lanciato nel 2008. Un titolo coraggioso, che abbandonava la struttura classica per abbracciare un mondo aperto: una città intera da esplorare, eventi sparsi ovunque, una libertà senza precedenti. Paradise fu amato da moltissimi, riuscendo anche a dare una lezione al rivale di sempre Need for Speed che invece proprio in quel periodo stava iniziando la sua pericolosa fase discendente, ma segnò comunque, e in modo incredibile, l’ultimo grande capitolo della serie.

Dopo di esso, Criterion venne infatti spostata sulla serie Need for Speed per farla rinascere, e Burnout, ancora oggi, è un bellissimo ma lontanissimo ricordo. Oggi, a più di vent’anni dalla sua uscita, Burnout 3: Takedown resta un simbolo. Non solo per chi lo ha giocato, ma per tutto il panorama dei racing game. È la dimostrazione che un videogioco può essere puro istinto, adrenalina distillata, senza bisogno di simulazione o realismo.

Non ebbe il futuro che meritava, ma forse proprio questo lo rende immortale. Perché certe esperienze non hanno bisogno di sequel per restare nella leggenda: bastano un nome, una sensazione, e il ricordo indelebile di quando l’adrenalina alla guida diventò pura arte digitale.

Scritto da
Andrea Peroni

Entra a contatto con uno strano oggetto chiamato "videogioco" alla tenera età di 5 anni, e da lì in poi la sua mente sarà focalizzata per sempre sul mondo videoludico. Fan sfegatato della serie Kingdom Hearts e della Marvel Comics, che mi divertono fin da bambino. Cacciatore di Trofei DOP.

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